giovedì 26 dicembre 2019

Martedì, 19 Febbraio 2008

Ci avviammo di nuovo verso casa, con Stupido fra noi che camminava tra due file di cani che abbaiavano. Sapevo bene perché volevo tenere quel cane. Era indecentemente chiaro, ma non potevo certo dirlo al ragazzo. Ne sarei stato imbarazzato. Ma a me stesso lo potevo confessare. Ero stanco di sconfitte e fallimenti. Ero affamato di vittoria. Avevo cinquantacinque anni e di vittorie all'orizzonte non ce n'erano, tanto meno battaglie. Anche ai miei nemici era passata la voglia di combattere. Stupido rappresentava la vittoria, i libri che non avevo scritto, i luoghi che non avevo visto, la Maserati che non avevo mai avuto, le donne che desideravo, Danielle Darrieux, Gina Lollobrigida e Nadia Grey. Era il trionfo su tutti gli incapaci che avevano squarciato le mie sceneggiature tanto da farne zampillare il sangue. Era il sogno di una grande progenie, di figli dotati di un brillante intelletto iscritti a università famose, studenti con ricchi doni per il mondo. Come il mio amato Rocco, avrebbe alleviato il dolore e i lividi dei miei giorni interminabili, la povertà della mia infanzia, la disperazione della mia giovinezza, la desolazione del mio futuro.
Era un cane, non un uomo, un animale, ma col tempo sarebbe diventato mio amico, e mi avrebbe riempito la testa di orgoglio, divertimento e sciocchezze. Era più vicino a Dio di quanto io non sarei mai stato, non sapeva leggere né scrivere, ma andava bene anche così. Era un disadattato, e io ero un disadattato. Io avevo combattuto e avevo perso, lui avrebbe combattuto e vinto. Gli altezzosi alani, gli orgogliosi pastori tedeschi, li avrebbe pestati a sangue, tutti, e se li sarebbe pure scopati, e io avrei avuto le mie rivincite.
Da "A ovest di Roma" di John Fante, Ed. Einaudi

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